Kubrick e Jung

Kubrick e Jung

Come la psicologia analitica abbia influenzato i film di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick Carl Gustav Jung

 

È lo spettatore con formazione analitica ad attribuire diversi riferimenti alla teoria junghiana nei film di Stanley Kubrick o è proprio l’intenzione del regista dare forma in immagini alla psicologia del profondo?

La ricorrenza di questa domanda, infatti, cela una certa paura o sospetto che il legame Kubrick-Jung sia qualcosa di artificioso, prodotto di un’astrazione mentale, lontana dall’idea originaria del regista americano.

Questo dubbio trova luogo proprio nel finale di Orizzonti di Gloria, che non è stato capito, proprio per la sua ambiguità: o è stato interpretato in senso umanistico o in senso cinico e derisorio. La certezza di Dax sul valore assoluto della dignità dell’uomo, da lui difesa di fronte al generale Broulard, sembra incrinarsi quando trova i suoi uomini in una taverna, intenti a maltrattare una giovane prigioniera tedesca che sta cantando per loro. Sul volto di Dax si dipinge il dubbio che Broulard possa avere ragione: forse veramente i soldati sono veramente degli animali e come tali vanno maltrattati, ma, a poco a poco, il coraggio della ragazza impietosisce gli uomini; il suo canto, all’inizio sommerso dai fischi, si fa distinto e i fanti, turbati, si uniscono alla sua canzone. Alla fine piangono anche loro e, secondo l’interpretazione sentimentale della scena, riscoprono così la propria anima.

Sennonché, a posteriori, cioè alla luce dei film successivi, che hanno espresso una concezione pessimista della vita, la stessa scena si può interpretare in maniera diversa. La sequenza finale, infatti, potrebbe essere intesa anche in senso ironico. Forse, raffigurando il pianto dei soldati, il regista ha voluto testimoniare la volubilità dell’uomo: ai militari che sono pronti a uccidere il nemico e a fucilare i loro compagni, basta un semplice ritornello per commuoverli sino alle lacrime. Dopo di che, i soldati francesi torneranno tranquillamente a scannare i soldati tedeschi. Com’è ovvio, questa diversa chiave di lettura toglie alla conclusione della pellicola ogni effetto consolatorio ed evidenzia il motivo junghiano della dualità della natura umana, destinato a essere ripreso da Kubrick nei suoi film successivi (soprattutto Full Metal Jacket e in Eyes Wide Shut). In Full Metal Jacket sarà il soldato Joker ad esprimere ironicamente la sua duplice natura, schizofrenica, natura di assassino (“nato per uccidere”) e di individuo disponibile verso il prossimo (favorevole al pacifismo). Durante un’intervista televisiva, Joker confessa candidamente: “io volevo tanto vedere l’esotico Vietnam, il gioiello dell’Asia orientale. Io volevo incontrare gente interessante, stimolante, con una civiltà antichissima. E farli fuori tutti.”

Kubrick asserisce: “Dopo tutto, l’uomo è l’assassino più privo di rimorsi che sia apparso sulla terra. L’attrazione che la violenza esercita su di noi, rivela, in parte, che nel nostro subconscio noi ci differenziamo poco dai nostri antenati” e rifiuta l’idea “ingenua” di Rousseau che sia la società a rendere violento l’uomo.

L’evoluzione, quindi, ha avuto poca influenza sui fattori intrapsichici. È connaturata con esso: la violenza dell’uomo-scimmia è la stessa dell’uomo moderno. Uomo-scimmia che apre la sequenza di 2001 Odissea nello spazio, capolavoro che apre e contemporaneamente chiude un genere fantascientifico, insieme ad un monolite nero che appare come una minaccia e nel contempo come un segno di speranza nei quattro momenti decisivi dell’evoluzione umana: all’inizio è la scimmia che vi si accosta con rispetto, e poi scopre a poco a poco l’uso dell’osso come arma, primo passo di un dominio tecnico sul mondo, ma questa scoperta compiuta nel segno della paura la induce a servirsene per uccidere un’altra scimmia (ogni progresso della specie, sembra che Kubrick voglia dirci, è legato alla soddisfazione degli istinti. Quando questi sono attenuati o repressi come nella società del 2001, l’uomo si raggela. È solo uccidendo HAL 9000 che Bowman ha accesso ad uno stadio superiore). Così i rapporti tra la paura e l’aggressione, sempre presenti nei film di Kubrick, vengono espressi in 2001 in modo sconvolgente. Quell’osso lanciato in aria dalla scimmia divenuta uomo si trasforma all’altro capo della civiltà, con una di quelle ellissi brutali care al regista, in un’astronave che si dirige verso la luna. La lastra misteriosa ricompare sulla luna, emette degli strani segnali che vengono studiati dagli astronauti e precede stavolta il gigantesco salto nell’ignoto rappresentato dal viaggio verso Giove. Nel cielo di Giove la lastra appare per la terza volta, prima del tuffo di Bowman “oltre l’infinito”.

Infine, è in un’altra dimensione del tempo e dello spazio che il monolite si erge nuovamente, mentre un vegliardo punta il suo dito verso di lui, gesto che prelude alla nascita di un altro uomo. 2001 assume l’aspetto di una ricerca che lo avvicina a Moby Dick, altro grande viaggio documentario (in cui Melville dimostra di essere informato e preciso sulla pesca alla balena quanto Kubrick sull’astronautica), altra indagine sul senso della vita.

Il monolite, sia esso un’immagine di Dio, degli extraterrestri o di una forza cosmica, è una nuova manifestazione del determinismo che tende a governare la visione del mondo di Kubrick. Fin dall’alba dell’umanità, prima la scimmia e poi l’uomo sono dei servitori passivi. Rinviano ad una autorità superiore che li manipola proprio come sono manipolati i soldati di Orizzonti di gloria, come lo è Alex durante il trattamento Ludovico e come lo è Jack da parte degli abitanti dell’hotel Overlook, ma il monolite può sfuggire anche a questa riduzione simbolica e fare dunque tutt’uno con quello slancio vitale che spinge l’uomo a superarsi.

Il passaggio nella quarta dimensione rappresenta per David Bowman il momento del grande scontro che tutti i personaggi di Kubrick conoscono. Bowman improvvisamente invecchiato incontra il suo doppio (anche Hal possedeva un ordinatore gemello), poi un altro sé stesso ancora più vecchio disteso sul suo letto e dal respiro affannoso (qui si ritrovano due delle ossessioni del regista). La morte dell’uomo è un nuovo inizio. Gli occhi immensi del feto che gira nello spazio offrono lo stesso sguardo angosciato della scimmia della preistoria che contemplava la luna, o di quello del “colosso” di Goya descritto da Malraux che “sogna con il volto inquieto tra gli astri”.

Come ogni vera odissea, 2001 è, infatti, un viaggio nel mondo esterno che diventa una scoperta di sé stessi. Da oggettivo il racconto diventa soggettivo e penetrando nel centro logico della memoria di HAL 9000, Bowman intraprende un periplo all’interno del labirinto della propria coscienza. L’astronave Discovery (scoperta) lo conduce dunque ad una rivelazione del suo destino ed il film di Kubrick, pur raggiungendo i miti omerici impliciti nel titolo (il combattimento del navigatore Bowman, letteralmente “l’arciere”), come Ulisse, con l’ordinatore ciclope che egli vince con l’astuzia), rappresenta, al contrario dell’epopea greca, un’esplorazione interiore. Kubrick, infatti, precisa che sotto una semplice “spiegazione elementare dell’intrigo” di 2001: Odissea nello spazio esistono altre, ancora più profonde, di cui peraltro non intende parlare. “Si tratta di un ambito altamente soggettivo e che può differire da uno spettatore all’altro. Se il film provoca le emozioni dello spettatore e penetra nel suo inconscio, se stimola, anche in modo incompleto, i suoi bisogni e le sue pulsioni mitologiche e religiose, allora lo scopo è raggiunto”.

Comunque, più avanti nell’intervista, Kubrick fornisce qualche indicazione su un ulteriore, possibile, livello interpretativo, laddove mette in relazione il monolito nero con la teoria degli “archetipi” di Carl Gustav Jung. Il riferimento alla psicologia analitica junghiana è forse la chiave per comprendere alcuni punti controversi del film: è proprio questa misteriosa pietra nera a favorire la trasformazione di Bowman? Qual è esattamente la sua funzione? E che significato hanno le immagini vertiginose che appaiono all’astronauta durante il viaggio “oltre l’infinito”?

Se si vuole intraprendere un’analisi in termini junghiani del film, bisogna riconsiderare anche la figura del bambino-stella.

In realtà, il fanciullo potrebbe essere la rappresentazione del Sé (Selbst), di cui parla Jung, l’archetipo fondamentale della psiche, la meta difficilissima da raggiungere, “un ideale al limite”, alla quale aspira la psiche individuale. Il Sé è la piena realizzazione delle proprie potenzialità. Rappresenta una coniunctio oppositorum, una sintesi degli opposti, l’unità di conscio (maschile) e di inconscio (femminile); il punto del nuovo equilibrio, una nuova centratura della personalità complessiva, che offre all’individuo una nuova base.

Questa entità psichica appare nei sogni, nei miti e nelle favole in  un’immagine di “personalità di grado superiore”, come re, eroe, profeta, salvatore, oppure si presenta simbolicamente come bambino (il feto astrale!). Un’altra immagine archetipica del raggiunto equilibrio del Sé è il mandala (termine sanscrito che significa “circolo”), una figura geometrica che costituisce oggetto di contemplazione e di meditazione in numerose religioni. Jung, nel saggio Simbolismo dei mandala (1950), ne riassume gli elementi formali, che possono essere, fra l’altro, una configurazione sferica a forma di uovo, o anche un occhio (pupilla e iride: l’occhio inquietante del bambino-stella di 2001: Odissea nello spazio).

Ora, secondo Jung, l’autorealizzazione del Sé è il termine di un processo di crescita interiore detto “individuazione”, che consiste nella capacità di far emergere i contenuti inconsci della mente e nell’“integrarli” nella coscienza. L’Io deve lasciarsi invadere dall’inconscio, non per naufragare nell’indistinzione originaria, ma anzi per estendere i confini della sua stessa realtà e per realizzare un’unità superiore attraverso l’“interazione” delle opposte polarità presenti nella psiche di ogni individuo (come razionalità cosciente e pulsionalità inconscia, pensiero ed eros, ecc.).

Questo è, appunto, ciò che accade a David Bowman nel segmento finale di 2001: Odissea nello spazio, quando l’astronauta entra nell’atmosfera di Giove e inizia una sorta di discesa agli inferi. Il trip psichedelico, che lo conduce in una zona magmatica e in perpetua trasformazione, è in realtà il rischioso viaggio nell’abisso dell’inconscio, l’addentrarsi nelle zone più oscure e inquietanti della psiche. Superata questa prova, l’astronauta muore e si rigenera, rinascendo, così, allo stadio del Sé. Contemporaneamente, si verifica nello spazio la coniunctio Solis et Lunae, la congiunzione del Sole e della Luna che Jung considera, appunto, il simbolo della coniunctio oppositorum che si realizza nella nuova configurazione psichica del Selbst. Se accettiamo questa interpretazione, allora il monolito che opera la mutazione di Bowman potrebbe essere il lapis philosophorum, la pietra filosofale degli alchimisti, in grado, da un lato, di tramutare i metalli vili in oro, e, dall’altro, di portare la psiche dell’operatore (cioè dell’alchimista stesso) da condizioni di umanità impure a condizioni pure o nobili. L’opera alchemica, infatti, è sì un tentativo di penetrare nell’essenza delle trasformazioni chimiche, ma implica anche un processo mentale a decorso parallelo verso uno stadio superiore di umanità, cioè, nell’ottica di Jung, verso il Sé della psicologia analitica, come risulta dall’opera junghiana Psicologia e alchimia (1944). D’altra parte, gli alchimisti insistevano sul carattere non ordinario della loro impresa e del loro oggetto: “Aurum nostrum -precisavano - non est aurum vulgi”, cioè “il nostro oro non è l’oro volgare”.

Jung ricorda che la pietra alchemica è menzionata, con il nome di lapis exillis, dal poeta tedesco Wolfram von Eschenbach nel poema Parzival (1200-1210), dove viene identificata addirittura con il Graal. Von Eschenbach ritiene che il Graal non sia una coppa, come vuole la tradizione, ma “una pietra del genere più puro, […]  chiamata lapis exillis. Se un uomo continuasse a guardarla per duecento anni, [il suo aspetto] non cambierebbe: forse solo i suoi capelli diventerebbero grigi”. Il termine lapis exillis potrebbe essere una forma corrotta di lapis elixir (altra denominazione della pietra filosofale) o di lapis ex coelis (“pietra caduta dal cielo”). Von Eschenbach, infatti, scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione contro Dio. La tradizione esoterica delle pietre celesti, tramite fra uomo e Dio, è confermata anche dalla religione islamica, dove la pietra nera della Mecca custodita nella Kaaba (verosimilmente un aerolito) è l’oggetto più sacro.

Il monolito nero di 2001 che fluttua nello spazio cosmico potrebbe essere, dunque, il lapis ex coelis, e, in virtù del parallelo istituito da Jung fra l’opera degli alchimisti e il processo psichico di individuazione, il mezzo che conduce alla realizzazione del Sé, simboleggiata dalla nascita del feto astrale.

Non a caso, le immagini psichedeliche apparse a Bowman nel suo viaggio “oltre l’infinito” presentano tutta una serie di variazioni cromatiche (giallo, verde, rosso e violetto), che evocano la funzione dei colori nella trasformazione alchemica dall’inferiore al superiore. Inoltre, tra le forme che appaiono nel trip allucinante di 2001, spicca la figura geometrica del quaternio, o doppia piramide, che secondo Jung simboleggia appunto l’ordine quaternario del passaggio alchemico attraverso quattro colori, nonché l’archetipo della psiche umana in cui si esprime la totalità dei processi consci e inconsci.

È significativo il fatto che Jung colleghi al tema del lapis alchemico anche l’avvento dell’oltre uomo nietzschiano. Discutendo, infatti, della frase che Nietzsche usa in Zarathustra: “Ahimè, uomini, nella pietra dorme un’immagine, l’immagine delle mie immagini!”, Jung afferma: “Nell’antichità il mondo materiale abbondava di proiezioni di un segreto psichico che appariva allora come un segreto della materia, e tale rimase fino al declino dell’alchimia nel diciottesimo secolo”. L’intuizione estatica di Nietzsche vorrebbe strappare alla pietra il segreto del superuomo, a quella pietra nella quale questi ha finora dormito. Nietzsche vorrebbe cioè creare il superuomo, che nel linguaggio dell’antichità potremmo chiamare anche l’uomo divino, a somiglianza di tale immagine. Gli alchimisti procedevano invece in senso opposto: cercavano la pietra miracolosa contenente un’essenza pneumatica per ricavarne la materia capace di penetrare in tutti i corpi (perché essa è lo “spirito” che è penetrato nella pietra) e di trasformare mediante trascolorazione tutti i metalli vili in metalli nobili.

Forse, è proprio da suggestioni come queste, che Arthur Clarke e Stanley Kubrick hanno tratto qualche spunto per ideare la suggestiva trama di 2001: Odissea nello spazio.

Al termine del film di Kubrick, in una bolla circolare e luminosa, scorgiamo i lineamenti del feto, che guarda enigmaticamente verso di noi. L’immagine possiede, in termini junghiani, una notevole numinosità, suggerita dalla forma circolare e dalla luce, il che avvalora il suo significato di immagine del Sé. Il concetto di numinoso, che Jung riprende da Rudolf Otto (1869-1937), indica l’inesprimibile, il terrificante, l’interamente diverso, cioè quelle qualità che appartengono generalmente al divino e agli archetipi, e che Kubrick attribuisce appunto al bambino-stella.

Ammettendo l’ipotesi avanzata da alcuni critici di un’ideale continuità nell’opera kubrickiana, si può dire che Danny (Danny Lloyd), il bambino di un successivo film di Kubrick, Shining (The Shining, 1980), dotato di poteri extra-sensoriali, rappresenti il puer nato alla fine della vicenda descritta in 2001: Odissea nello Spazio, cioè l’individuo che ha realizzato l’Io integrale, il Sé, ed ha raggiunto l’equilibrio fra le proprie intime polarità: quelle consapevoli e quelle inconsce. In virtù del suo shining (tradotto in italiano con “luccicanza”), Danny sembra trovarsi allo stadio dell’illuminazione, della luce interiore. Egli riesce a mantenere un dialogo costante con il suo inconscio, rappresentato da Tony, l’essere immaginario (o Alter Ego) con cui gioca e parla, che gli permette di vedere ciò che gli altri non vedono e di comunicare telepaticamente. Proprio perché Danny è in grado di intrattenere un proficuo rapporto con la sua interiorità a differenza del padre Jack (Jack Nicholson), che ha vanamente represso la propria “metà oscura”, può superare l’ultima prova (il labirinto) e uscire vivo dalla lotta mortale con il padre.

In questa conclusione, si può vedere, quindi, come ha fatto Jacques Goimard, una nuova rappresentazione del dramma edipico; il monolite non sarebbe più soltanto il simbolo di Dio, del Sé, ma l’autorità in generale, dunque il padre che il bambino sogna di assassinare per prenderne il posto. Il vegliardo muore e il feto astrale gli succede, proprio come nelle società primitive il re deve essere ucciso per permettere al suo successore di occupare il trono.

Se vuoi approfondire:
A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, 2002
The films of Stanley Kubrick, Gran Rapids, William B. Eeramus, 1973.
C. G. Jung, Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, in Opere Vol. IX, Bollati Broinghieri, 1997.
C. G. Jung, Simbolismo dei mandala, in Psicologia e Alchimia, Torino, Boringhieri, 1981.
C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 233.
W. Von Eschenbach, Parzival (1200-1210), Torino, Tea, 1981.
F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra.

 

 

Verdirame
Christian Verdirame

Sono uno psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista junghiano. Amo l'arte e in particolare il cinema, la letteratura e la cultura giapponese. Su psicologiadelprofondo.it i miei articoli si concentreranno su simboli e immagini archetipiche.